"...Sarà per questo da respingere l'analisi di casi del genere,
perchè rimane infruttuosa? Non lo credo affatto. Noi abbiamo il diritto,
anzi il dovere, di condurre la ricerca senza preoccuparci di un utile immediato.
Alla fine-dove e quando non sappiamo-ogni pezzettino di conoscenza si
trasformerà in potere, anche in potere terapeutico," (Freud 1915-17,
418).
La ricerca nel campo dei casi gravi ha ispirato il lavoro di un
gruppo di studio del Centro Psicoanalitico di Roma, formatosi cinque anni fa.
Queste pagine rappresentano la personale elaborazione dell'autore su alcuni
argomenti affrontati nel gruppo, non è quindi un lavoro compiuto, ma
piuttosto una serie di annotazioni ed il filo che le unisce è da trovare
nel tema della relazione analitica e degli aspetti di realtà
dell'esperienza analitica.
Nella Rivista Psiche (1995, 2-3) alcuni di noi
hanno scritto sugli strumenti clinico-teorici che ci consentono oggi di
rivolgerci a quelle aree primitive della mente alla base delle patologie un
tempo ritenute inanalizzabili. Ma si farebbe un torto a molti analisti del
C.P.R. se non si ricordasse che la ricerca per le patologie gravi ha sempre
avuto in questo Centro un forte interesse, in alcuni momenti non espressamente
dichiarato, presentandosi sotto temi più generali. Nell'introduzione al
libro "La relazione analitica", frutto del lavoro di tredici soci del C.P.R., si
legge a proposito dell'adozione di nuovi modelli "rivoluzionari o riformistici"
rispetto alla psicoanalisi classica ed in particolare rispetto alla proposta
innovativa operata dai "parametri" di Eissler (1953), che: "Questo criterio,
permettendo un progressivo ampliamento del gruppo delle persone suscettibili di
cura (bambini, psicotici, gruppi, borderline, soggetti istituzionalizzati etc.),
pur apparendo in superficie come un compromesso pratico per conciliare la
maggior richiesta ambientale con la tutela di un "setting" rigoroso, rappresenta
non solo uno stimolo costante al perfezionamento della tecnica ma anche un
incentivo sempre rinnovato alla speculazione teorica. Va tuttavia qui registrato
il prezzo particolarmente alto che la psicoanalisi paga..." (AA.VV. 1981, 6). La
paura di pagare un prezzo troppo alto in termini di caduta di identità
della psicoanalisi ha reso difficile e lenta l’ulteriore riflessione sul
vasto materiale prodotto da quel gruppo e sulle implicazioni che ne derivano per
la teoria e per la pratica psicoanalitica. Egualmente nei gruppi di studio
condotti da Eugenio Gaddini intorno alla ricerca sugli stati primitivi della
mente, furono prodotti lavori che indicano un percorso parallelo alla ricerca
sulle patologie gravi.
La speranza che accompagna l’attuale gruppo di
lavoro è che gli psicoanalisti nel riconoscere che l’analisi dei
pazienti psicotici e borderline comporta la ricerca di aree complementari di
sapere, come le chiama Adamo Vergine, considerino la possibilità di
aprirsi ad altri modelli, comunque interni alla psicoanalisi, senza che
ciò porti a rivalità e competitività teoriche che
pregiudichino il progresso della conoscenza.
La mia convinzione è
che la sensibilità acuta ed abnorme dei pazienti gravi nella percezione
della realtà esterna, estendendosi anche agli aspetti di realtà
della persona dell'analista, ci porta ad evidenziarne l'influenza ineliminabile
nella costruzione dell'esperienza analitica, aprendoci alla consapevolezza del
fenomeno e a volte alla necessità di renderlo esplicito nei limiti del
possibile. I pazienti di cui parlo soffrono per fratture o rappresentazioni
abnormi del Sè e della realtà, in essi i conflitti fra le istanze
della mente appaiono più sfumati, la libido ritirata dalla realtà
è tutta impegnata nel sostenere il Sè e a difenderlo da
ritraumatizzazioni.
Alcuni dei problemi che svilupperò in queste
pagine sono posti dalle specifiche vicende che accadono con questi pazienti,
altri, comuni anche ai pazienti nevrotici, richiedono particolari riflessioni
visti nell'esperienza dell'analisi di pazienti gravi.
Setting e
responsabilità
"...si può dire che...una capacità di
preoccuparsi è alla base di ogni gioco e di ogni lavoro costruttivo."
(Winnicott 1962 a, 90)
PAZIENTE A
Paziente .: D
opo
tanti anni di analisi... si sta materializzando la mia paura di sempre... Non
riesco più a parlare... Non sono padrona del mio pensiero. Non sono
più io... E’ come se stessi diventando un’altra...(lungo
silenzio accompagnato da un rigirarsi continuo sul lettino).
Anche lei non
può più fare niente... Non sono padrona di me... La pazzia
esiste... Che mi succederà ora?...La seduta è finita, chiamiamo
qualcuno che mi riporti in quella clinica... Non posso farcela da
sola.
In quel momento mi ritornavano alla memoria alcuni episodi della
mia esperienza di lavoro con pazienti in Ospedale Psichiatrico. Pensavo ai
pazienti che spesso venivano legati perchè in preda ad angosce dalle
quali cercavano di difendersi con aggressività verso gli altri o
sè stessi. Non ero mai d’accordo nell'uso di quei mezzi di
contenzione, piuttosto mi sedevo vicino al letto e restavo a lungo in ascolto.
Quasi sempre la presenza di qualcuno disposto ad ascoltare, a parlare delle loro
sofferenze serviva a superare quei momenti di crisi, a spegnere ogni reazione di
panico ed a farli ritornare in possesso dell'autoregolazione
dell'aggressività.
Analista:
Credo non sia necessario
chiamare qualcuno, sarò qui con lei finché non si sentirà
in grado di farcela da sola.
Paziente: Ma lei non può
più fare niente... Sto troppo male...Non riesco più a
pensare...Deve ricoverarmi...
Analista: Credo che lei cerchi
così di sfuggire alle difficoltà di adattamento nella pur tanto
attesa esperienza di lavoro, che ha riaperto quelle angosce di integrazione che
abbiamo affrontato in analoghe vicende in passato. Ma ciò che più
conta in questo momento non è spiegarci ciò che sta accadendo, ma
piuttosto superare la sua angoscia e la paura della pazzia senza ricorrere al
ricovero. Resteremo qui finché sarà necessario e finché
saremo insieme non potrà accaderle ciò che
teme.
Parlò ancora molto e provò a raccontare ciò
che stava accadendo nell'ambiente di lavoro, un lavoro stabile, un'esperienza di
continuità, nella quale era riuscita a calarsi dopo tanto lavoro
analitico. La seduta durò solo un po’ di tempo oltre il consueto,
la paziente si sentì infine in grado di andare via da sola e nei giorni
seguenti gradatamente recuperò il senso di Sé.
Dopo alcune
sedute, riparlando della sua paura della "pazzia" imminente ricordò
l’angoscia del buio di quando era bambina. La protezione dalla "pazzia"
era stata “la presenza totale”, così la definì,
contrapponendola alle disastrose relazioni primarie della sua vita.
Mi ero
reso conto, già in precedenti momenti critici di questa analisi, che le
mie interpretazioni venivano accolte pienamente solo ad un livello cognitivo. La
mia "presenza totale", la mia assunzione di responsabilità servì a
farle sentire che comprendevo pienamente ciò che le stava accadendo e che
non mi chiudevo in una "...superiore convinzione della verità della sua
visione distorta quanto lo erano stati i genitori.." (Kohut 1984, 233). Per
ristabilire la coesione del Sé di fronte agli stati di frammentazione
è necessaria "...la presenza, reale o quantomeno vividamente immaginata,
di oggetti-Sé che diano risposte empatiche." (Kohut 1984, 40). In questo
senso credo veramente che la pazzia non esista, nel senso del "...principio
della relatività della classificazione diagnostica" (Kohut 1984, 234) o,
se vogliamo dirlo con Winnicott nel senso che essa è la ripetizione di
un’esperienza già vissuta di crollo di un legame vitale. Nei
momenti particolarmente difficili di queste analisi "...può essere il
paziente stesso a chiederci di modificare il setting, nella sua configurazione
esterna (ma ampiamente influente sulla condizione interiore del paziente),
purché noi analisti ci manteniamo garanti di una non corruttibile
condizione di setting interno, entro cui comunque accogliere le modalità
espressive e comunicative del paziente stesso". Quando la patologia "...è
tanta che non può stare muta nel setting, allora può improntarlo
esplicitamente e renderlo adeguato a sé." (Conforto e Francini 1997, 119,
120) Questa necessità di adeguamento del setting pone un problema che
definirei etico, il problema della responsabilità. La presenza
dell’analista, che intendo anche come alterità responsabile,
è stata da sempre riconosciuta dal modello relazionale come fattore di
cura, anche se con sfumature ed accenti diversi nei vari autori. Intendo per
alterità responsabile l’emanazione, “l’enact” di
un sentimento che ritiri la delega della responsabilità da un fattore
esterno alla coppia analitica, le teorie analitiche, quasi sacralizzate e la
consegni invece al qui ed ora dell’incontro fra due persone di cui una
assume, pur nella loro influenza reciproca, la responsabilità della
asimmetria. L’analista è, lo voglia o no, un punto di riferimento
forte con quei pazienti il cui mondo interno non ha potuto organizzare
sufficienti risorse. Egli è un modello e “...deve poter agire, ...
in determinate situazioni analitiche come modello e in altre come maestro”
(Freud 1937, 530). Questo tema apre l’inquietante problema del contributo
attivo dell’analista nel determinare le qualità della situazione
transferale e nel se-durre, nel senso di influenzare ed attirare il paziente
nella relazione e non possiamo pensare che basti il porsi coscientemente come
obiettivo finale l’emancipazione dalla dipendenza transferale per
risolvere la questione. Ma questo sofferto dubbio, che accompagna
l’analista in ogni istante del suo lavoro non dovrebbe suscitare
turbamenti così pesanti da indurlo a nascondersi assumendo “...una
posizione difensiva di modellizzazione transferale cosiddetta tradizionale,
più definitiva e rassicurante" (Pozzi 1994, 652). Nel caso della paziente
la mia assunzione di responsabilità, testimoniata dal parlare molto
apertamente della sua paura della pazzia, contribuì a fornirle elementi
su cui ricompattare un più solido senso di
sé.
Relazione - Interpretazione
L
öwestein, ricorda Nacht (1973, 161),
si diceva convinto che nessuno aveva mai “...potuto concludere con
successo un’analisi senza aver offerto qualcosa di più che semplici
interpretazioni”. E Winnicott in Gioco e Realtà (1971, 152):
“Mi sgomenta pensare alla quantità di cambiamento profondo che io
ho impedito o ritardato, in pazienti che appartengono ad una
certa categoria
di classificazione, a causa del mio personale bisogno di interpretare...Io
penso - continua Winnicott - che interpreto soprattutto per far conoscere al
paziente i limiti della mia comprensione.”
Da sempre gli analisti si
sono posti il problema di quanto l’azione terapeutica della psicoanalisi
sia legata alla sola interpretazione, soprattutto di fronte al bisogno del
paziente grave di recuperare e costruire “...quanto non ha potuto
svilupparsi nel corso di precedenti relazioni.” (Robutti 1992, 17). Come
curare le forti carenze patite nell’infanzia, era ciò che si
chiedeva con inquietudine Ferenczi, al quale Freud rispose nel modo più
sereno forse solo quando scrisse di lui dopo la morte: “E’ probabile
che si fosse prefisso delle mete che con i nostri attuali metodi terapeutici non
possono comunque essere raggiunte.” (Freud 1933, 321). Ma cosa mancava ai
metodi terapeutici cui si riferisce Freud, per curare le forti carenze patite
nell'infanzia?
Da quando Nunberg descrisse alcuni aspetti transferali in
un paziente catatonico gli analisti si sono sempre più avvicinati alle
patologie gravi. Winnicott era convinto che la psicosi fosse la condizione di
colui che non ha trovato qualcuno capace di sopportarlo e Kohut stabiliva il
già ricordato "principio della relatività della classificazione",
esso dipende dalla capacità dell’analista di allargare la sua
empatia al paziente. "...Se l'analista continua ad allargare la sua
osservazione empatica anziché allontanarsi dal paziente dichiarandolo
"non analizzabile"- come se questo termine connotasse una realtà
oggettiva nella quale l'analista stesso non è incluso - potrà
essere ricompensato dall'assistere al modo in cui un caso al limite diventa un
disturbo narcisistico della personalità."(Kohut 1984, 234). Ciò
che mancava allora alla teoria psicoanalitica (non alla prassi come vedremo
più avanti) era il riconoscimento della funzione di fattore terapeutico
che assume la relazione fra due persone nel pieno dispiegamento
dell'essere.
[1]
Purtroppo la
descrizione delle esperienze cliniche viste nella prospettiva relazionale
risulta spesso parziale, incompleta e forse dovremmo riconoscere che ciò
che è vissuto empaticamente nell’incontro con l’altro
è qualcosa che andrà inevitabilmente in parte perduto in qualsiasi
sistematizzazione teorica. Ma poco importa perché, come ci ricorda Freud
citando Goethe: "E' grigia, caro amico, qualunque teoria, verde è
l'albero d'oro della vita"(Freud 1923, 611).
P
AZIENTE
B
Paziente: Mio padre, visto che con l’analisi non sto meglio,
mi ha portato da uno psichiatra. Mi ha prescritto il veleno che mi farà
morire. Così si compirà il mio destino. Anche lei è
d’accordo con loro, anche lei è in questo
complotto.
Analista: Quale motivo avrei io per farla morire?
Paziente: Non lo so. Ma lei crede in quello che
dico?
Analista: Vorrei riuscire a capire meglio quello che lei vuole
dirmi con questo racconto del complotto.
Paziente: Ma questa
pillola è il veleno con il quale mi uccideranno! La prenda lei (alzandosi
dal lettino) Questa non è la medicina, è il veleno mortale.
Perchè non lo prende lei? (me la porge).
Le interpretazioni sul
significato e sull’uso difensivo di quel delirio non erano riuscite ad
aprire spazi di pensiero condiviso. In che modo l’analista può
raggiungere allora questi pazienti non sempre capaci, per il livello di
regressione patologica, di far uso dei simboli verbali? Sono sempre stato
convinto dell'attualizzazione del concreto nell'analisi dei pazienti gravi e
della realtà "... di una relazione desimbolizzata, riguardo alla quale,
naturalmente l'analista esercita la sua funzione di simbolizzazione" (Berti
Ceroni 1997, 70) nei tempi che il paziente gli consentirà. B. era figlio
di un musicista e aveva subìto la presenza intrusiva di un padre che, fra
i molti figli, aveva scelto lui, fin da piccolo, come "erede" della sua arte.
Era bloccato a stadi molto primitivi, con difficile accesso ai processi di
simbolizzazione e la violenza, ripetutamente subìta, era concretamente
vissuta nel delirio come avvelenamento di ogni potenzialità di percorso
autonomo. Chiedendo a me di prendere la sua medicina, quel paziente voleva
capire se io possedevo la capacità di metabolizzare il veleno che le
relazioni primarie gli avevano messo in corpo e se ero in grado di soffrire con
lui per venir fuori insieme da quel complotto, ma nello stato mentale in cui era
non poteva che dirlo in quel modo. L’esperienza analitica con pazienti
gravi si svolge spesso a quei livelli di comunicazione e la funzione
interpretativa si recupera nel tempo, è proprio questo recupero di
elaborazione e di interpretazione di tutto ciò che accade, che
costituisce la specificità della funzione analitica, funzione che con
questi pazienti non è possibile ridurre alla sola
interpretazione.
"...Come per l'analisi dei bambini si è reso
necessario inventare un setting del tutto particolare, così per gli
psicotici bisogna in molti casi predisporre uno spazio (essenzialmente mentale)
che sia sufficientemente accogliente e condiviso...". In questo spazio, solo
dopo molto tempo, si potranno utilizzare "...i nostri giocattoli che talvolta
allo psicotico fanno tanta paura: le parole." (Conforto e Francini 1997, 116).
La psicoanalisi ponendosi il problema dell’ampliamento del suo campo di
applicazione, dai soggetti che hanno paura prevalentemente dei desideri, ai
soggetti che hanno paura delle parole e delle fantasie ed a quelli che
appartengono alla patologia di fine secolo, le organizzazioni stabili nella
instabilità, si è dovuta porre anche il problema
dell’ampliamento degli strumenti terapeutici.
Nella ricerca dei
fattori terapeutici già a Freud appariva irrinunciabile la
necessità che l’interpretazione venisse data non prima che
l’attaccamento del paziente all’analista fosse: “...giunto a
un punto tale da far si che il rapporto sentimentale” fosse tale da
rendere “impossibile il rinnovarsi della fuga.” (Freud 1910, 330).
Freud ritorna sull'argomento nella lezione 27 su “La Traslazione”,
quando afferma che è la qualità positiva della traslazione che
influenzerà il paziente "...nel senso da noi desiderato" (Freud 1915,
594) cioè verso la nostra convinzione. Pur parlando di “rapporto
sentimentale” il mettersi poi nella posizione di chi ha come obiettivo che
l'altro vada nel senso da noi desiderato, ci riporta però in una visione
dell’altro comunque oggettivante, una visione che non ritiene che anche
all'analista sia richiesto di andare nel senso desiderato dal paziente. Qualche
decennio dopo, sul problema allora definito del “ruolo attivo”
dell’analista nel determinare la qualità positiva della traslazione
e sulla presenza dell’analista, fu messo un forte accento al Congresso
Internazionale di Marienbad del ’36 nel quale la comunità
psicoanalitica, riprendendo le riflessioni di Ferenczi, a tre anni dalla sua
morte, diede voce al pensiero di analisti come Sterba, Strackey e altri i quali
portarono in primo piano l’autenticità dell’atteggiamento
dell’analista, la persona stessa dell’analista ed il suo forte ruolo
di soggetto reale, fonte delle identificazioni mutative del paziente e dei
processi di ridimensionamento del Super-Io. Dal XIV Congresso dell’I.P.A.
venne quindi una prima risposta alla domanda di Freud su Ferenczi, con
l'affermare l’importanza della equazione personale dell’analista,
l’importanza di chi egli è, prima di ciò che egli dice, o in
altre parole sottolineando che l'analista non può dare ai suoi pazienti
se non ciò che egli stesso ha conquistato.
Ferenczi aveva con forza
richiamato l’attenzione sull’enorme valore del riconoscimento da
parte dell’analista dei "punti deboli" della sua personalità e
degli "errori" (Ferenczi 1927, 303) commessi in analisi, come fattori
determinanti le caratteristiche dell’esperienza analitica e Freud
commentando quelle parole scriveva: “Non soltanto il modo d'essere dell'
Io del paziente, ma anche le caratteristiche peculiari dell'analista devono
essere prese in considerazione tra i fattori che influenzano le prospettive
della cura analitica ...." e più avanti "E' incontestabile che gli
analisti non sempre hanno raggiunto nella loro stessa personalità quel
tanto di normalità psichica alla quale intendono educare i loro
pazienti” (Freud 1937, 530). Affermazione quest'ultima veramente
inquietante, ma non penso comunque che ci si debba lasciare andare al pessimismo
e per ora mi limito a dire che ho visto molte madri dalla personalità
psicotica che sapevano essere buone madri e quindi nell’affermazione di
Freud è sul significato di “quel tanto di normalità
psichica” che dovremmo interrogarci e chiarirci.
La presenza dell'analysta
Nel concetto di presenza
dell’analista faccio coincidere almeno tre forme o funzioni della
presenza. La prima funzione è legata al mantenimento della
continuità delle emozioni e della modulazione affettiva delle emozioni,
che nei pazienti gravi è fortemente compromessa. La seconda è
legata al bisogno di un “modello” o di un “maestro”
(Freud 1937, 530), per cui il paziente deve poter contare su una fonte concreta
di elementi rivitalizzanti e regolarizzatori. La terza, che comprende anche le
prime due, è nel significato della presenza dell’analista come
soggetto inevitabilmente codeterminante quell’esperienza.
Come
scrive De Toffoli (1996, 82): "All'interno della seduta paziente ed analista
costituiscono una coppia in interazione dinamica reciproca, i cui accadimenti
non possono essere compresi separatamente...Nella drammatizzazione
dell'esperienza ideo-affettiva emergente sotto forma di configurazione
relazionale, l'analista è anche attore, non solo spettatore o
interprete."
Ognuna di queste funzioni ripropone il discorso sui fini del
trattamento psicoanalitico e sui fattori terapeutici. Tali fattori sono da
ricercare soltanto nell’interpretazione, oppure sono anche il risultato di
una nuova esperienza nella quale la condivisione e la modulazione delle emozioni
permettono di compensare ciò che mancò nel passato e di facilitare
la ripresa del processo maturativo con l’offerta di una nuova esperienza
relazionale in grado di dispiegare nuove e più ampie possibilità
dell’essere?
In questo secondo caso ciò che dobbiamo chiederci
è sia come l'analista può raggiungere il paziente, sia come il
paziente può raggiungere la persona dell’analista per vederlo
pienamente in gioco con la sua soggettività che contribuisce a
determinare una nuova opportunità. Nello scritto "I fini del trattamento
psicoanalitico" Winnicott conclude dicendo"...ho basato la mia affermazione
sulla supposizione che tutti gli analisti siano simili, in quanto sono analisti.
Ma gli analisti non sono tutti uguali. Io non sono lo stesso di venti o trenta
anni fa. Alcuni analisti lavorano indubbiamente meglio nella zona più
semplice e più dinamica dove il conflitto fra amore e odio ...
costituisce il problema principale. Altri analisti operano altrettanto bene, o
anche meglio, quando possono affrontare meccanismi psichici più
primitivi...In questo modo, interpretando... le angosce ipocondriache e
paranoidi ...i disturbi del pensiero ecc.., essi estendono il campo d'operazione
e la varietà dei casi che possono affrontare....A parer mio, i nostri
fini nell'applicare la tecnica classica non si modificano, se ci capita di
interpretare meccanismi psichici che rientrano nei disturbi di tipo
psicotico..." (Winnicott 1962 b, 217).
Transfert e identificazione proiettive
Il transfert ripetizione di esperienza
del passato, che vede nell’interpretazione lo strumento che promuove
consapevolezza e cambiamento, non sembra poterci far comprendere tutto
ciò che avviene quando incontriamo pazienti non nevrotici. In questi casi
sono portato a credere che ciò che determina il percorso analitico
ricostruttivo è la ricerca della totalità dell’altro da
parte di entrambi i soggetti che si trovano nella stanza analitica, è
l’analisi delle proiezioni insieme alla scoperta degli aspetti reali
dell’analista da parte del paziente, ma anche dell’analista verso il
paziente. Un analista distaccato, preoccupato di seguire alla lettera una
tecnica che prescrive neutralità ed astinenza, attento alla ricerca
dell’esatta interpretazione di svelamento, porterebbe
all’insostenibilità quell’angoscia di frammentazione che in
diversa misura ritroviamo in ogni paziente grave. Le interpretazioni in questi
casi sono sentite come un freddo tentativo di spiegazione, un tentativo di
traduzione della sofferenza nei codici teorici dell’analista, il quale
può usarle piuttosto come difesa dall’angoscia che prova nel
vedersi investito violentemente di quelle parti che il paziente gli pone dentro.
Il problema è nell'uso che si fa dell'interpretazione che
può essere un tipo di interpretazione lineare, cioè a senso unico
che restituisce al paziente ciò che lui vorrebbe mettere in comune con
l'analista ed un tipo di interpretazione circolare che può far invece
sentire che si sta insieme condividendo e costruendo qualcosa che l'analista
può tenere con sè aspettando il momento giusto per lasciarla
realizzare dal paziente. In questo senso l'interpretazione piuttosto che
un'operazione di svelamento o di decodificazione è da vedere come una
realizzazione di nuovo senso.
Come Freud pensando alle patologie gravi in
termini di neuropsicosi narcisistiche ritenne questi pazienti incapaci di
sviluppare un transfert, anche noi oggi, se li pensiamo come soggetti che
mettono in discussione la stabilità del setting analitico, rischiamo di
allontanarci da essi ponendoci da un vertice di osservazione che è un
nostro limite, un limite che proiettivamente collochiamo nel setting
considerandolo come un insieme di regole esterne, piuttosto che assumerlo come
una disposizione interna dell'analista, unica condizione garante della funzione
analitica. Il significato del setting, come disposizione interna dell'analista,
la sua possibile funzione di fattore curativo nel senso di holding, di
contenitore, di unità di base, di luogo della presenza, di esperienza che
sviluppa conoscenza, è la ricerca nella quale gli analisti si stanno
impegnando per la comprensione degli stati mentali borderline o psicotici, stati
mentali che impongono di passare dalla psicoanalisi ad una persona ad una
psicoanalisi intesa come esperienza "...che pone in contatto due
individualità nella loro potenziale interezza" (AA.VV. 1981, 9). Da
questo punto di vista non dovremmo più parlare di pazienti gravi
bensì di relazioni gravi.
Nell'incontro con questi pazienti
ciò che sentiamo fin dal primo momento è la loro paura ed
egualmente il forte bisogno di relazione, affetti che determinano quella
pressione emotiva che ha ispirato il concetto di identificazione proiettiva,
concetto di non facile collocazione, ma comunque indispensabile per spiegare
quella forte pressione che i pazienti gravi esercitano sulle persone che
realmente interagiscono con loro. E’ un’esperienza che avviene solo
nell'ambito di una interazione particolarmente forte che pone l'identificazione
con parti proiettate nell’analista fra i principali fattori terapeutici.
L'identificazione proiettiva è la principale modalità con la quale
i pazienti gravi si relazionano con le persone che hanno con loro un profondo,
concreto e reciproco rapporto, essa è perciò un fenomeno dal forte
aspetto intersoggettivo che rende conto di quei sentimenti oscuri ed inquietanti
che non ci appartengono perchè sono messi dentro di noi e che quindi
sentiamo come esperienze estranee. Queste esperienze estranee e comunque nuove
contengono potenzialità terapeutiche se riusciamo a renderle reciproche.
Ciò di cui drammaticamente hanno bisogno questi pazienti è
l'esperienza di un incontro che offra loro una mente da utilizzare come officina
della propria mente, un'officina nella quale compiere le operazioni di restauro
delle proprie parti danneggiate, un luogo dove essi depositeranno quelle parti
di sè che non sono in grado di sopportare, e nel quale troveranno gli
strumenti da utilizzare per vicariare il loro deficit di strumentazione. Dice
Ogden: "...l'essenza di ciò che è terapeutico per il paziente si
trova nella capacità del terapeuta di ricevere le proiezioni del
paziente, di utilizzarne aspetti della propria e più matura
organizzazione della personalità, per sottoporre a processo trasformativo
la proiezione e renderla quindi pronta per la reinteriorizzazione" (Ogden 1991,
11).
L'aspetto intersoggettivo del fenomeno è reso chiaramente se
pensiamo ai modelli biologici su cui si modellano i processi mentali. Come
l'introiezione è strutturata sull'incorporazione, così
l'identificazione proiettiva si è modellata su una componente primitiva
del sistema di alimentazione madre-bambino: l'alimentazione bocca a bocca che
è ancora presente nelle popolazioni di Samoa e della Nuova Guinea. Il
bambino allo svezzamento non è ancora in grado di tenere dentro la sua
bocca del cibo troppo duro per lui, allora è la madre che prende quel
cibo e piano piano lo trasforma in bolo alimentare con i suoi strumenti, in modo
che possa essere così idoneo per essere restituito al bambino. Il
concetto bioniano di analista contenitore capace della trasformazione di
elementi beta, può essere egualmente appoggiato a questo primitivo
modello biologico. L'analista- madre presta un suo spazio interno per farne
un'officina dentro la quale contenuti mentali "indigeribili" possano essere
trasformati e poi restituiti. Le soggettive, mature capacità di
regolazione emozionale dell'analista, gli consentono di accogliere e di non
espellere le parti proiettate, trasformando queste parti
“indigeribili” in parti reintegrabili e reinteriorizzabili. Il
paziente si sentirà portato ad identificarsi con queste qualità,
con questi strumenti della persona dell'analista, rafforzando l'esperienza
relazionale trasformativa.
Ogden parla di fenomeni che vanno oltre
l'individuo per indicare un'attività di due o più persone. In tal
modo attraverso l'identificazione proiettiva una fantasia, un pensiero o un
sentimento diventano un evento intersoggettivo. (Ogden
1991)
Sull’incontro con un altro soggetto che aiuta il paziente ad
evitare il crollo psichico si fonda il significato del lavoro analitico con i
pazienti gravi, un soggetto che si offre all’altro, che dà se
stesso in uso all’altro, per trovare poi un’esperienza di
reciprocità e di condivisione nel progetto trasformativo e
maturativo.
Dice Winnicott a proposito dell’uso dell’oggetto:
“Molti dei nostri pazienti vengono con questo problema già
risolto”. Winnicott si riferisce evidentemente ai nevrotici, mentre gli
altri, egli dice: “...hanno bisogno che noi siamo in grado di dare loro la
capacità di usarci. Questo per loro è il compito analitico”.
(Winnicott 1974, 163). L’analista specchio dell’esperienza del
“come se” renderebbe vuoto e falso l’incontro con quei
pazienti il cui accesso al simbolico è ancora da conquistare e per i
quali il transfert non è solo la ripetizione di ciò che è
stato vissuto, ma è anche l’esperienza che consente la
ricostruzione di ciò che non poté costruirsi nelle passate
relazioni. In questi casi ciò che dispiega significati non è
l’esperienza della frustrazione ottimale, quanto piuttosto quella della
presenza ottimale.
“Pensavo che la cosa più importante da
dirsi - scriveva Freud a Ferenczi - era ciò che non bisogna fare onde
evitare quanto può allontanare dallo spirito dell’analisi. Ma il
risultato è che gli analisti non hanno compreso l’elasticità
delle regole che avevo formulato e ne hanno fatto dei tabù.”(Freud
1908-14). Così la regola della neutralità ed il suo corollario, la
regola della frustrazione, sono diventati per alcuni analisti i "miti" (Stolorow
e Atwood 1992) dell’analisi che hanno consentito loro di nascondersi come
persona, di credere che le loro interpretazioni non siano manifestazioni della
loro soggettività, cioè del loro sapere personale, della loro
personale formazione analitica e delle loro problematiche libidico-affettive.
Nella prospettiva intrapsichica si finisce spesso per assumere la
neutralità come dogma, colludendo con irrisolti problemi di autoritarismo
ed onniscienza dell'analista. Bisogna però essere consapevoli che
egualmente nella prospettiva relazionale si corre il rischio di non comprendere
il significato analitico del concetto di presenza, ipertrofizzando nel terapeuta
eventuali problemi di onnipotenza e motivazioni riparative. Tenendo sempre alta
la nostra attenzione verso questi rischi, possiamo avvicinarci ai pazienti gravi
e riconoscere loro il bisogno di una nuova esperienza, di un incontro con un
secondo oggetto che disconfermi la negatività della prima relazione, un
secondo oggetto che sia disposto a riconoscere la verità della
realtà traumatica e ad offrire una nuova opportunità.
Trauma
"...la relazione analitica è
fondata sull'amore della verità, ovvero sul riconoscimento della
realtà, e ....non tollera nè finzioni nè inganni" (Freud
1937, 531).
"Per quanto riguarda la tecnica di approccio di questi traumi
gravi, è in corso una rivoluzione copernicana. ...Non distinguere gli
aspetti di realtà determinerebbe un effetto iatrogeno favorendo la
concettualizzazione di ogni realtà come fantasia e inibendo quindi i
processi di conoscenza." (Bonfiglio 1997, 589) Il transfert negativo, i
comportamenti aggressivi ed i deliri paranoici possono allora assumere il
significato di comunicazione all’analista per fargli capire che sta
nascondendosi per il timore di non essere in grado di comprendere la reale
drammaticità dell'esperienza dell'altro.
PAZIENTE C
Quarantacinquenne, era alla sua terza analisi. Inviatomi con diagnosi
di delirio paranoico, rivendicava chiarimenti su alcuni fatti accaduti nelle
analisi precedenti. Mi resi ben presto conto che la insistente richiesta di
questa persona era una verifica ed una condivisione della sua realtà
traumatica, risultato di una continua violazione psichica attuata con la
negazione, da parte dell'ambiente familiare, della sua esperienza personale di
violenze e continue misure punitive subite dai fratelli e da altri adulti ai
quali chiedeva solo di condividere i loro giochi, di essere accettato pur
essendo più piccolo. Influenzata anche dalla cultura della sua regione,
la madre non aveva mai offerto a questo figlio, colpevole di non essere
primogenito, una protezione da questi comportamenti violenti ed equivoci,
scoraggiando i suoi tentativi di far valere la verità considerandola una
assurdità. Per compensare questa ripetuta situazione traumatica di
mancanza di oggetti affidabili, perché sempre dissonanti con i suoi stati
mentali e volti alla distorsione della verità, fin da ragazzo, si era
rifugiato in forti legami di dipendenza "identificandosi completamente con
l'aggressore". (Ferenczi 1932, 421). "La verità era sempre quella che
dicevano mio fratello e le altre persone, a me veniva sempre detto che ero un
bambino bugiardo, anche quando era chiaro agli occhi di tutti che le cose
stavano proprio come le avevo subite io..."
La questione della teoria del
trauma recupera, in questo caso, l'evento posto in un punto di incontro tra la
pulsione e l'oggetto. Nello scritto del '32 Ferenczi introduce l'idea della
pulsione catturata dalla realtà storica traumatica. Egli pensava che
oltre all'"amore forzato", alla "frustrazione amorosa", e alle "insopportabili
misure punitive" esistesse un altro modo di traumatizzare il bambino consistente
nella delusione e nel dolore per la negazione da parte dell'adulto della sua
realtà. Nell'impossibilità di affermare la sua realtà su
quella dell'adulto il bambino si sottomette annullando la sua verità e
identificandosi con l'aggressore. L'effetto trumatico si verifica, come nel caso
di C, in conseguenza della negazione della realtà. Quando il bambino
chiede di parlare a dar senso al racconto di quanto realmente accaduto, riceve
un rifiuto che fa confondere la realtà e la fantasia e rende impossibile
farne una rappresentazione. "Il bambino di cui si è abusato diventa una
creatura che obbedisce in modo meccanico oppure ostinato ormai incapace di
rendersi conto del motivo della propria ostinazione." (Ferenczi 1932, 422). La
memoria traumatica può essere allora recuperata attraverso l'ostinazione
rivendicativa, come nel caso di C, oppure attraverso il sogno o una
capacità sensoriale altamente sviluppata che può esprimersi in un
comportamento artistico. C, insieme alla patologia del pensiero, aveva
sviluppato una precoce qualità, una "progressione traumatica" (Ferenczi
1932, 424), che lo aveva affermato come brillante fotografo, quasi a voler
chiedere a quel mezzo tecnico, non quindi confutabile, di testimoniare la
realtà. Nella sua infanzia emozioni e fatti, positivi o negativi che
fossero, venivano assolutamente disconfermati e negati, per affermare la
realtà degli altri. Era sempre più importante quello che "gli
altri" pensavano e questo offuscava la sua realtà e ne confondeva la
mente fra verità e bugia, verità e fantasia, invalidando la
conoscenza soggettiva. Ad una entità estranea, "la gente", "gli altri",
era stata sacrificata ogni autenticità nelle relazioni interpersonali e
questi fantasmi si erano ripresentati nell'analisi precedente sottoforma di
spiegazioni "insincere e velenose" che erano state date ad alcuni fatti accaduti
(spostamento di seduta, ritardi del paziente o dell'analista) spiegazioni
sentite spogliate di autenticità e di verità. Scrive Ferenczi "La
situazione analitica - la freddezza riservata e l'ipocrisia professionale che
servono a nascondere l'antipatia verso il paziente, il quale tuttavia le avverte
con ogni parte del suo corpo - non è sostanzialmente diversa dallo stato
di cose che a suo tempo, nell'infanzia, esercitò un'azione patogena."
(Ferenczi 1932, 418).
Nel caso C, a questa ritraumatizzazione era seguita
una profonda rabbia che sosteneva una richiesta di risarcimento verso la
Società scientifica alla quale appartenevano gli analisti. Mai come con
questo paziente ho visto realizzarsi un cambiamento tanto forte e repentino nel
senso dell'abbandono della sua oscillazione fra paranoia e depressione,
conseguente ad un mio dispormi internamente con disponibilità e ad un
responsabilizzarmi rispetto ad ogni cosa che accadesse, sempre con una forte
attenzione al riconoscimento delle mie corresponsabilità in ciò
che andavamo sperimentando, cosa che al paziente appariva come una novità
assoluta rispetto alle sue vecchie esperienze di
relazione.
Neutralità e soggettività
Non
vi è concetto più difficile in psicoanalisi di quello di
neutralità, esso cade in una sconcertante ambiguità, tanto
più evidente quanto più con il paziente grave siamo convocati nel
coinvolgimento di una significativa relazione terapeutica. Se solo teniamo conto
che l’analista è presente, che è lì come essere
totale, con la sua personale disposizione libidico-affettiva, le sue esperienze
di formazione (analisi personale e supervisione), le sue teorie e che è
impossibile che questi attributi della sua soggettività non si
dispieghino, come facciamo a non pensare che l’atteggiamento di
neutralità è solo un’illusione? Se poi esso venisse
ricercato ad ogni costo si trasformerebbe in un attivo atteggiamento di non
attività, contraddizione palese che si carica di valenze iatrogene. Nelle
esperienze di seconde e terze analisi ritroviamo non sempre la forza formidabile
della coazione, troviamo a volte qualcosa di nuovo che determina esperienze
molto diverse fra loro, vissuti transferali a volte opposti tra loro. Il
discorso si apre allora alla genesi, alla forma ed alla evoluzione di quello che
è il fattore principale di guarigione, il transfert ed ai fattori che
danno alle interpretazioni qualità e significati diversi per il paziente.
Certo l’efficacia di una interpretazione dipende dalla qualità del
transfert, da quella qualità che a Freud appariva essere il
“rapporto sentimentale”, ma della qualità del transfert non
è il paziente l’unica determinante, l’analista né
è soggetto attore quanto il paziente. Neutralità e astinenza
allora possono diventare aspetti determinanti, poichè possono essere
utilizzati come difese, rappresaglie, per dirla con Winnicott, verso le
perturbazioni portate dal paziente. “Questi attacchi - scrive Winnicott -
possono essere difficili da fronteggiare per l’analista, specialmente
quando vengono espressi in termini di delirio o mediante una manipolazione che
fa praticamente fare all’analista cose tecnicamente sbagliate (mi
riferisco a cose come la inattendibilità nei momenti in cui
l’attendibilità è tutto ciò che conta, così
come al sopravvivere in termini di rimanere vivi e all’assenza della
qualità di ritorsione).” (Winnicott 1971, 160).
Accogliere il
delirio e sopravvivere significa ridare fiducia e ciò è possibile
solo continuando a mantenere vive le proprie qualità affettive, anche nei
casi in cui sono comprese la propria rabbia, la propria aggressività che
non vanno nascoste per ritorsione (Izzo 1991). Se vediamo nella pulsione
aggressiva lo sviluppo per il paziente della capacità di usare
l’oggetto, il non accoglierla, il porsi solo in difesa, significherebbe
comportarsi proprio come quel qualcosa di antico che fu l’ambiente non
favorente, l’ambiente senza oggetti vivi o con oggetti volti alle
rappresaglie. Scrive Winnicott: “Le madri, come gli analisti, possono
essere sufficientemente o non sufficientemente buone: alcune possono, altre non
sono in grado di portare il bambino dall’entrare in rapporto
all’usare.” (Winnicott 1971, 155). La capacità di collocare
l’analista nell’area del non-me comporta la capacità di usare
l’analista, ma: “...se l’oggetto si deve usare esso deve
necessariamente essere reale, nel senso di essere parte di una realtà
condivisa e non un fascio di proiezioni....l’analista deve prendere in
considerazione la natura dell’oggetto, non come una proiezione, ma come
una cosa in sé.” (Winnicott 1971, 154-155).
Il paziente grave
ha bisogno di trovare nell’analista un nuovo oggetto e una reale
disponibilità a farsi usare per una nuova esperienza, con modi e tempi
che solo lui conosce, per un’operazione disidentificante che ponga in
essere nuove condizioni per vivere in funzione di ciò che accade ora e di
ciò che accadrà in seguito e non più solo in funzione di
ciò che è già accaduto. L’uso presuppone la
realtà dell’oggetto, ma è la pulsione aggressiva a
determinare "la qualità di esteriorità" (Winnicott 1971, 162)
quindi la realtà dell’oggetto, è la pulsione aggressiva che
riesce a collocare l'oggetto nella realtà condivisa, dove potrà
essere possibile usarlo. Winnicott ribadisce spesso che affinché
ciò avvenga è necessario un ambiente favorente, la cui condizione
è quella di non fare rappresaglie. Essere un soggetto reale che non fa
rappresaglie mimetizzandosi, questo significa accogliere la pulsione aggressiva,
che in questo caso è senza rabbia, senza distruttività, vi
è anzi la gioia del riconoscimento, dell'invenzione della realtà.
Se il paziente riesce a far "alterare" l’analista, l'analista diventa
allora l’altro e se sa rimanere sé stesso, diventa reale, solo
così può diventare l’oggetto usato, un oggetto reale e
accessibile nella sua soggettività.
La necessità di una
asettica presenza del soggetto, per un riconoscimento di scientificità
della psicoanalisi, ha comportato inizialmente una castrazione della
soggettività dell’analista, ma avendo la psicoanalisi nello stesso
tempo svelata la disturbante potenza dell’inevitabile coinvolgimento
nell'incontro, essa non può più credere in una teoria
dell'esperienza analitica che non riconosca ad entrambi i soggetti una eguale
forza nella costruzione di quel percorso che non è l’analisi di una
persona, ma è l’esperienza analitica di due persone. (Mitchell
1988) Non si tratta di teorizzare un analista tecnicamente attivo o tecnicamente
passivo, bensì di riconoscere un soggetto inevitabilmente determinante e
questo è così quanto più il paziente grave è tale da
turbare gli schemi organizzatori dell’affettività
dell’analista.
L’analista ed il paziente fanno esperienza della
relazione analitica mediante la propria soggettività che si
modellò nelle esperienze relazionali passate. Il paziente, anche se
è portato a distorcere la realtà dell’analista con le sue
proiezioni, nello stesso tempo, ancora per la sua patologica sensibilità,
coglie la realtà non distorta dell’analista come sullo sfondo e, se
gli sarà facilitato di fidarsi di quest’ultima, organizzerà
la nuova esperienza che respingerà allora indietro la realtà
distorta dal passato rimosso ponendo in primo piano l'esperienza di una nuova
realtà.
Il disconoscimento della soggettività è
spesso il "trauma cumulativo"(Khan 1963) all'origine delle patologie gravi e
perciò queste patologie possono essere comprese meglio se viste nel
contesto specifico intersoggettivo nel quale si evidenziano. E’ in un
campo intersoggettivo che nasce e si sviluppa la mente ed è in un campo
intersoggettivo che avvengono le gravi catastrofi psicologiche che sono poi
riconosciute come sintomi di stati mentali gravi, è allora in un nuovo
campo intersoggettivo che può avvenire la cura di questi pazienti.
Nella quasi totalità dei casi clinici descritti da analisti che
trattano pazienti gravi si riconoscono modelli che, rinunciando ai criteri di
neutralità e di facilitazione basata sull'astensione e l'attesa, fanno
invece leva sulla presenza e sulla capacità di empatia dell'analista.
Alcuni fra i sostenitori della teoria pulsionale, pur giudicando positivamente
queste esperienze, non accettano di farle rientrare nell'area dei trattamenti
psicoanalitici, trasferendoli nello spazio contiguo delle psicoterapie
psicoanalitiche. A me sembra questa una questione che esula dal dibattito
scientifico e che appartiene piuttosto ad una scelta politica che, come tale,
può anche essere condivisibile.
Fu Balint il primo ad indicare
nella nuova esperienza, nel "nuovo inizio" (Balint 1952) un fattore terapeutico
indispensabile, nell'esperienza con un analista che deve fornire una
funzione-ambiente che consenta la comunicazione, nonostante la forte regressione
che le patologie gravi comportano. Sono queste funzioni a dare rinforzo al
Sè frammentato, facilitando l’introiezione di nuovi modelli
relazionali. L’introiezione apre poi spazi ad operazioni più
strutturanti, allargando la capacità di cogliere la complessità
dell’esperienza analitica ed alla fine aumentando la capacità di
integrare la reale e totale complessità dell’esperienza umana, che
è ciò che manca nei pazienti gravi.
La dicotomia teoria - prassi in freud: ritualita'-spontaneita'
"Tanto quel che
sai di meglio non puoi dirlo ai tuoi alunni" (Goethe-Faust. Parte I scena II).
E' questa una delle citazioni predilette da Freud (1899, 138, 415; 1897-1904, 3
dicembre; 1930, 12) quasi a voler testimoniare la consapevolezza di un bisogno
di spontaneità difficile da rendere in concetti teorici.
La
differenza fra la visione dell'uomo nel modello teorico e nella pratica
psicoanalitica di Freud fu evidente agli stessi suoi pazienti (Medar Boss 1957).
L’idea che si faceva strada in Freud, circa il nucleo più vero e
autentico della psicoanalisi, era che molti principi nel suo fondamento teorico
appartenevano "...alla sovrastruttura speculativa della psicoanalisi: non
c'è parte di questa sovrastruttura" egli scriveva "che, qualora
risultasse inadeguata per qualche motivo, non possa essere sacrificata o
sostituita senza danni né rimpianti.” (Freud 1924, 101) Ma quei
pezzi della “sovrastruttura speculativa della psicoanalisi”,
piuttosto che essere sacrificati e sostituiti di fronte ai loro difetti,
sostengono ancora quelle ritualità della psicoanalisi che considerano
l'uomo fuori dal suo rapporto col mondo, come una mente isolata e
originariamente narcisistica.
Quando andiamo a leggere i resoconti
lasciatici da alcuni pazienti di Freud e dagli allievi che lo conoscevano bene,
restiamo colpiti dal "... fatto che Freud, che pure ci aveva insegnato
così chiaramente che "il medico deve essere opaco per l'analizzando e,
come una lastra di specchio, mostrargli soltanto ciò che gli viene
mostrato", ...da specchio non si comportava affatto." (Nissim-Momigliano 1985,
123). "Le storie cliniche di Freud - scrive Paula Heimann - dimostrano come per
lui l'esperienza analitica consistesse nel raggiungere la libertà di
essere naturali ed onesti." (Heimann 1978, 388).E rispetto al materiale che i
pazienti gli fornivano era "...sempre pronto a cogliere ed interpretare
nell'hic et nunc, mettendo quasi regolarmente tale materiale in rapporto a
quanto avvenuto nelle sedute precedenti fra lui e il paziente..."
(Nissim-Momigliano 1985, 126). Questa dicotomia teoria-prassi, ha determinato
nella storia della psicoanalisi due diversi percorsi, quello della psicoanalisi
del sospetto e quello della psicoanalisi del rispetto. Rispetto per i propri
sentimenti è ciò che chiedono i pazienti gravi, anche quando
questi sentimenti vengono espressi in forme allucinatorie o deliranti e rispetto
anche per i sentimenti dell'analista, cioè autenticità e
sincerità dei sentimenti controtransferali.
Winnicott dichiarava di
non sapere cosa fosse un bambino al di fuori della coppia madre-bambino,
così non possiamo dire cosa sia il paziente regredito fuori dall'incontro
terapeuta-paziente. E' nel saper creare e preservare lo spazio di questo
incontro che si fonda la specificità della psicoanalisi, che Freud nella
sua prassi terapeutica ci ha indicata non solo come ricerca archeologica, ma
anche come incontro, mostrando per il futuro della psicoanalisi la strada per
costruire una valida teoria vicina alla esperienza, per "... ritornare dalla
grigia teoria all'esperienza concreta che rinverdisce in eterno." (Freud 1923,
611). "Non dimentichiamo - egli scriveva -che la malattia del paziente che
prendiamo in analisi non è qualcosa di concluso, di cristallizzato, ma
qualcosa che continua a crescere e a svilupparsi come un essere vivente.
L'inizio della cura non pone fine a questo sviluppo, ma appena la cura si
è impadronita del malato, avviene che l'intera neoproduzione della
malattia si riversa su un solo punto, ossia sul rapporto col medico." (Freud
1915-17, 593).